Kenya ed Etiopia hanno una popolazione di oltre 110 milioni di abitanti, un decimo di quelli di Europa (Russia europea compresa) e Stati Uniti messi insieme. Nonostante ciò, nella corsa di resistenza, i successi dei corridori degli altipiani sono decisamente superiori rispetto a quelli della popolazione Europa-USA.
Periodicamente vengono diffuse notizie scientifiche riguardanti presunte predisposizioni genetiche di alcune popolazioni, quelle del Kenia e del’Etiopia in particolare, per le corse di resistenza. Esiste un segreto degli altipiani?
Dai dati si scoprono tre cose:
- negli ultimi venti anni è aumentato il potere degli altipiani;
- il predominio è meno netto in campo femminile;
- nei 1500 m il predominio è ancora a favore degli “altri”.
Alla luce di queste due conclusioni, è possibile indagare meglio i vari fattori.
L’altura
Ormai è tramontata la teoria secondo la quale vivere sugli altipiani favorirebbe la resistenza del soggetto. Infatti l’allenamento in altura è stato molto ridimensionato negli ultimi vent’anni e, del resto, esistono molte altre popolazioni che vivono su altipiani, ma non esprimono campioni nella corsa prolungata.
Il doping
Viene citato solo per completezza. Mentre per altri settori (come la velocità) è possibile avere sospetti in quanto strepitosi successi possono essere fatti risalire a un atleta, a un allenatore, a un gruppo ecc., il fenomeno dei corridori degli altipiani è così diffuso e numericamente vasto che non è pensabile un’azione illecita dietro a esso.
La genetica
Secondo il noto fisiologo danese B. Saltin, i keniani sarebbero geneticamente favoriti perché esisterebbe un gene capace di produrre un enzima in grado di smaltire più velocemente l’acido lattico con un risparmio energetico di circa il 10%. Tale gene non è stato individuato e le ipotesi di Saltin appartengono (per ora) alla filosofia della medicina. Più interessanti sono le ricerche sul gene ACE*, ormai studiato da diversi gruppi (inglesi, australiani). Non si può escludere che fra keniani ed etiopi la percentuale di coloro che hanno la forma meno attiva del gene (associata a una minore ritenzione dei fluidi e a una migliore combustione dell’ossigeno) sia maggiore che in altre popolazioni, ma sono solo ipotesi. Se esiste una predisposizione genetica esiste cioè a livello di percentuale nella popolazione, non come esclusiva della popolazione.
Inoltre si deve rilevare che
parlare di predisposizione genetica sarebbe sensato solo se ci fosse il gap genetico, se cioè i tempi dei keniani/etiopi fossero decisamente inferiori a quelli degli altri atleti.
Quando esiste una reale situazione in cui lo stato (patologico o meno) di un campione di soggetti sia riconducibile alla genetica, il gap con gli altri campioni analizzati è veramente evidente (almeno nell’ordine del 10% citato da Saltin); quando invece tale differenza è minima (tipo 1′ sulla maratona, cioè meno dell1%), ecco che si propende per altri fattori, spesso di natura statistica. Senza un gap chiaro e incontestabile (per esempio 10′ sulla maratona), sarebbe come parlare di predisposizione genetica dei brasiliani o degli italiani per il calcio o dei russi per gli scacchi.
L’assenza del gap spiega perché alle olimpiadi (dove si possono iscrivere al massimo 3 atleti per specialità) keniani ed etiopi non la fanno sempre da padroni. Se ci fosse il gap genetico, dei tre atleti selezionati, almeno uno straccerebbe sempre gli avversari.
D’altro canto, anche i punti 1 e 2 propendono per l’assenza del gap. Il punto 1 ci dice che è successo (o sta ancora succedendo) qualcosa per cui il predominio di keniani ed etiopi aumenta e su un periodo di 20 anni non si può certo parlare di genetica. Anche il punto 2 è contrario all’ipotesi genetica: anche ammettendo che le donne in alcuni Paesi siano più penalizzate che in altri, se ci fosse un evidente gap genetico, sicuramente anche negli anni ’80 ci sarebbe stata almeno una donna degli altipiani capace di spazzar via i “vecchi” primati.
Un esempio
Queste righe non vogliono sostenere che non ci siano fattori genetici che concorrono al successo dei corridori degli altipiani, ma che tali fattori, se ci sono, sono di portata tutto sommato ridotta.
A mo’ di esempio vediamo invece un esempio in cui la genetica predomina. Consideriamo il parametro altezza. Analizzando velocemente dei soggetti, si potrebbe essere portati a dire che “i sardi sono più bassi dei norvegesi della regione di Ostlandet (popolosa come la Sardegna) per un fattore genetico”; scientificamente tale affermazione è solo parzialmente vera.
Infatti è corretto dire che la genetica limita le altezze della popolazione in esame, altezza che poi è modulata da altri fattori. Nell’esempio citato, i fattori extragenetici non sono in grado di colmare il gap genetico per cui, presi a caso 10 sardi e un norvegese, probabilmente il norvegese risulta più alto dei sardi in un gran numero di prove. Questo succede oggi, ma succedeva anche 20 o 30 anni fa. Succede per gli uomini e per le donne.
I baby-campioni
In quasi tutti gli sport l’evidenza mostra che deve esserci un coinvolgimento infantile perché possa nascere un campione. Sono rari i casi di ragazzi che sono diventati campioni incominciando a praticare uno sport dopo i 14 anni e tutti sono esempi di passaggi fra sport “compatibili”, per esempio dal calcio (attaccante) alla velocità, e nella direzione giusta (per esempio, non dalla velocità al calcio). Questo concetto è purtroppo ben compreso da genitori nevrotici e frustrati che avviano a una pratica sportiva massacrante i loro figli nella speranza che “arrivino dove loro sarebbero potuti arrivare”, senza prima verificare un positivo coinvolgimento emotivo del ragazzo.
Se vogliamo quindi capire perché un popolo predomina in un certo sport è necessario studiare l’approccio della popolazione infantile e preadolescenziale a quella disciplina sportiva.
Nel caso della corsa di resistenza, si deve quindi valutare la percentuale dei praticanti e lo stato dei praticanti. Meno importanza rivestono altri fattori più tecnici (la corsa è disciplina certamente meno tecnica del tennis o della scherma!), visto che oggi l’informazione nel bene (tecniche di allenamento, allenatori, medicina sportiva ecc.) e nel male (doping) circola molto velocemente in tutti i Paesi.
I praticanti
Nell’esempio sull’altezza abbiamo considerato due popolazioni di pari numerosità; inoltre il parametro altezza è posseduto da ogni elemento della popolazione. Nel caso dello sport non ha molto senso considerare la popolazione in toto, ma occorre estrarre l’insieme dei praticanti e, in base al paragrafo precedente, l’insieme dei praticanti in giovane età.
Probabilmente il dato iniziale sulla popolazione dei due Paesi africani avrà stupito i meno ferrati in geografia; come detto all’inizio, i 110 milioni di abitanti sono poca cosa rispetto al resto del mondo. È però un enorme serbatoio che giustifica un altissimo numero di praticanti.
Infatti su 100 ragazzi degli altipiani almeno 90 hanno provato la corsa; negli ultimi 20-30 anni molti talent scout si sono recati appositamente in quei Paesi alla ricerca di campioni, alimentando il sogno di cambiare vita (anche un atleta di rincalzo vive meglio che un abitante medio di quei Paesi). Le motivazioni economiche e il fatto che molti di loro già corrono nella vita quotidiana (mitico, ma reale, il fatto che molti giovani keniani percorrono decine di km al giorno per andare a scuola) fanno sì che i praticanti siano moltissimi.
Negli altri Paesi manca sia la consuetudine alla corsa (da noi i ragazzini al massimo fanno una partitella a pallone dopo la scuola che è nulla rispetto ai chilometri che i ragazzi degli altipiani fanno per spostarsi, per accudire le mandrie ecc.) sia l’avviamento a essa.
In molti Paesi l’avviamento alla corsa è molto frenato dalla presenza di altri sport (pensiamo negli USA a football, basket e baseball e da noi al calcio), in altri dall’assenza di una reale intenzione di promuovere lo sport giovanile. In Italia, per esempio, il bambino o il ragazzo che si dedica alla corsa di resistenza lo fa perché indirizzato dai genitori (importante quindi il ruolo della corsa amatoriale che educa gli adulti alla disciplina) o per una forte motivazione propria (emulazione del campione visto in televisione), mentre la scuola è decisamente carente e si limita ad azioni molto soft: vi immaginate un istituto che sottoponesse a visita medica d’idoneità i bambini di una quinta elementare per poi metterli alla prova su un percorso di 3.000 m? Almeno il 50% dei genitori insorgerebbe, temendo per la salute dei loro poveri e gracili figlioli. I nostri ragazzi non hanno “occasione” di correre, spesso accompagnati a scuola in macchina. Il “non correre perché sudi e ti ammali” è ancora in cima all’hit parade dei consigli delle mamme italiane. Con questa filosofia…
Riassumendo, non è esagerato sostenere che per ogni 50 ragazzi degli altipiani che provano la corsa di resistenza solo un occidentale lo fa. Morale: basta già questo dato per ristabilire l’equilibrio fra altipiani e resto del mondo.
L’alimentazione
Il ristabilito equilibrio non è però sufficiente a descrivere la realtà, in quanto comunque c’è un attuale predominio dei corridori degli altipiani sugli altri Paesi.
Parlando dei successi dei giamaicani nella velocità a Pechino 2008, Donovan Bailey, campione olimpico dei 100 ad Atlanta, ha sostenuto che un fattore importantissimo è l’alimentazione del luogo. La fisiologia dello sport ci ricorda che l’alimentazione non è in grado di migliorare nettamente la prestazione in un atleta adulto, non esistendo cioè un’alimentazione che faccia andare più forte di un’altra, purché sia nutrizionalmente sana ed equilibrata. Riprendendo il discorso dei baby-campioni, si deve invece rilevare che l’alimentazione in fase adolescenziale costruisce l’adulto di domani.
Per esempio, un’alimentazione iperproteica e una grande attività fisica costruiranno un fisico molto muscoloso (come quello degli sprinter giamaicani che, rispetto agli statunitensi iperproteici di oggi, hanno proprio il vantaggio di una maggiore attività fisica che utilizza meglio le proteine introdotte), mentre un’alimentazione ipocalorica costruirà un fisico magro, sia come percentuale di massa grassa sia come IMC (come quello di keniani ed etiopi). Se per la velocità il discorso è molto complesso, per la corsa di resistenza non ci sono dubbi:
solo un’alimentazione infantile ipocalorica è in grado di costruire un fisico magro ed efficiente.
Il termine ipocalorico è qui usato scorrettamente, in quanto il termine corretto sarebbenormocalorico, ma vuole sottolineare come in realtà il normocalorico occidentale sia un ipercalorico. Il bambino paffuto e grassottello non sarà che l’adulto in sovrappeso di domani.
Nelle società in cui
- si supera la soglia di povertà per cui il cibo è più che disponibile, ma continua a essere un valore,
- si apprezza il cibo, ma non se ne abusa,
si creano le condizioni per un corpo resistente.
Si può facilmente comprendere come la dieta mediterranea sia un disastro nella versione attuale: senza controllo delle calorie, mediamente proteica, crea nel ragazzo un corpo che non è né ipermuscoloso (manca l’attività fisica di costruzione) né resistente (percentuale di massa grassa eccessiva e alto IMC; anche i muscoli del ragazzo occidentale poco sportivo sono comunque troppi per la corsa di resistenza); tant’è che da adulto il ragazzo potrà eccellere in quegli sport dove la tecnica è importante e/o dove il mezzo non richiede una perfetta ottimizzazione del fisico.
Idem per le diete iperproteiche che, in assenza di attività fisica, si traducono in troppo grasso, o, in presenza di molto esercizio, in troppi muscoli.
Si notino i polpacci dei keniani. Il minore peso (circa 400 g in meno rispetto agli europei) rende più efficiente il lavoro muscolare delle gambe e serve un 8% di forza in meno al chilometro per azionarle. Pensiamo a tutti gli amatori che vogliono potenziarsi per andare più forte: forse avrebbero dovuto mangiare meno merendine da piccoli e magari lavorare un po’ di più nei campi…
Conclusioni
Riprendiamo i risultati ottenuti dai dati di confronto alla luce dei due importanti fattori che abbiamo descritto: numero dei praticanti e ottimizzazione dell’alimentazione infantile.
Negli anni ’80 gareggiavano atleti nati negli anni ’60 quando nei Paesi più avanzati non era ancora esplosa la bolla del “benessere” alimentare e comunque la vita non era così facile come oggi. Si spiega perché i bianchi fossero più competitivi. La competitività è rimasta solo nei 1500 m, specialità in cui la muscolazione dell’atleta è più importante, mentre lo è di meno l’ottimizzazione del grasso e del peso corporeo.
In campo femminile il predominio è meno netto perché comunque nelle donne, carenti muscolarmente rispetto agli uomini, la muscolatura “occidentale” da benessere alimentare comunque un po’ le aiuta. Non a caso, chi ha assistito all’arrivo dei 10000 m femminili alle olimpiadi di Pechino, avrà notato che molte atlete avevano cosce enormi, uno sviluppo che in un uomo sarebbe stato decisamente penalizzante; sempre coerentemente con quanto affermato, la terza arrivata, l’americana Flanagan, era una delle pochissime bianche ad avere gambe molto affusolate.
* Il gene ACE e la resistenza atletica – Ricercatori inglesi hanno scoperto che più lungo è il gene ACE (enzima di conversione dell’angiotensina) più i muscoli sono efficienti e possono lavorare più a lungo. Il gene è stato classificato secondo due forme, la D e la I. Poiché ogni soggetto ha due coppie di geni esistono tre possibili configurazioni (DD-ID, II). I soggetti con la doppia coppia I sono quelli che hanno maggiore resistenza (la ricerca inglese parla di un 9% dopo l’allenamento di due gruppi, uno II e uno DD). L’ACE è coinvolto nella contrazione muscolare e nell’innalzamento della pressione del sangue; una spiegazione (non certa) della ricerca potrebbe essere che i geni I (più lunghi) inducano una minor produzione dell’enzima e che aumentino il trasferimento di ossigeno e di sostanze nutritive al muscolo, rendendolo più performante. Come conseguenza della ricerca, altri studi hanno mostrato come fra gli sprinter la percentuale dei soggetti II sia minore che fra i maratoneti. La ricerca è importante non solo in campo sportivo, ma anche cardiologico (il cuore è un muscolo!), poiché si può supporre che soggetti di tipo II rispondano meglio ai problemi cardiaci.