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Il test di Cooper, in cosa consiste?

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Nonostante sia piuttosto celebre in ambito sportivo, esiste ancora qualcuno che non conosce il test di Cooper.

A idearlo nel 1968 fu un medico americano, Kenneth H. Cooper, e a distanza di quasi cinquant’anni viene ancora ampiamente utilizzato. In Italia, ad esempio, è impiegato da molti docenti di educazione fisica sia nelle scuole medie che in quelle superiori; ma in che cosa consiste, esattamente, il test di Cooper? Viene misurata la distanza massima che un soggetto è in grado di compiere in 12 minuti di tempo. In genere questo test viene effettuato in pista, in modo da avere delle prestazioni uniformi e non condizionate dalle caratteristiche del tracciato (fondo sconnesso, discesa, salita etc.). Il test, inoltre, si deve svolgere in condizioni climatiche ottimali, vale a dire senza vento forte o pioggia.
Di solito il test di Cooper dev’essere preparato con un riscaldamento che prevede all’incirca 15 minuti di corsa lenta con alcuni cambi di ritmo. Ultimato il riscaldamento, il soggetto può cominciare a correre per i previsti 12 minuti con l’intento di coprire la distanza maggiore possibile. L’obiettivo del test è valutare il consumo massimo di ossigeno, “VO2max“. Tale test andrebbe effettuato periodicamente per verificare se le prestazioni del soggetto hanno subito un miglioramento oppure un peggioramento.
A dispetto della fama, il test di Cooper avverte però il peso degli anni: al di fuori dell’ambito scolastico, infatti, questo test è superato e al giorno d’oggi l’intervallo di tempo ideale per misurare il consumo massimo di ossigeno è 7 minuti, per cui il test più probante da questo punto di vista è appunto il “test dei 7 minuti“. In entrambi i test, il requisito indispensabile è mantenere un ritmo di corsa regolare.

Il team di RunningMania

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