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Test di Cooper: come funziona e quali sono i suoi limiti

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Ideato quasi mezzo secolo fa, il test di Cooper è tutt’oggi molto in voga nell’ambito sportivo: ma cosa misura e qual è la sua attendibilità?

Correva l’anno 1968 quando il Dr Kenneth H. Cooper ideò un test per la misurazione del massimo consumo di ossigeno (VO2max) di un soggetto dopo che lo stesso ha corso, spingendosi al massimo delle sue possibilità, per 12′. Il test di Cooper è piaciuto subito molto al mondo sportivo e ancora oggi viene ampiamente usato.

Come si svolge la prova di Cooper?

Il test di Cooper, solitamente, viene effettuato in pista, per evitare che un fondo sconnesso o il sali-scendi del terreno ne inficino i risultati. Inoltre, la prova andrebbe fatta con condizioni meteo ottimali, ossia in assenza di vento o pioggia. La procedura di esecuzione del test prevede:
– 15′ di riscaldamento, effettuato con corsa lenta alternata a cambi di ritmo;
– 12′ esatti di corsa, spingendo fino a coprire la maggiore distanza possibile;
– misurazione della distanza raggiunta e confronto del risultato con quelli riportati in apposite tabelle.

Origini ed evoluzione del test di Cooper.

L’esigenza di misurare la tenuta di un soggetto durante la corsa si è fatta sentire negli anni ’50, e il primo test studiato per tale scopo è stato messo a punto sulle esercitazioni dei militari dal Dr Balke nel 1959. La prima versione della prova prevedeva una corsa di 15′, poi ridotti a 12′ per mano del Dr Cooper e, nel 1983, perfezionato ulteriormente dal Dr Luc Léger, dell’Università di Montreal, che ha fissato in 7′ il tempo ottimale di misurazione della VO2max (test della Navetta di Lèger). Questo fitness test parte da un assunto: il soggetto sottoposto alla prova deve riuscire a tenere un ritmo di corsa regolare per tutta la durata della stessa. Vien da sé che, se si effettua il test su un atleta professionista, l’assunto viene rispettato ma, se si studia la prestazione di un runner inesperto o poco allenato, il ritmo di corsa difficilmente viene mantenuto stabile per tutti i 7′. Inoltre, Cooper e colleghi non hanno tenuto conto di un fattore fondamentale per la valutazione di un atleta: il suo grado di allenamento.

Limiti e imperfezioni del test di Cooper.

Un test nato per valutare la resistenza di atleti giovani e ben allenati poco si adatta a tradurre le performance di soggetti diversi. Com’è facilmente intuibile, il grado di allenamento, l’età anagrafica e la sedentarietà di una persona ne compromettono sensibilmente la resa atletica e, di conseguenza, rendono poco significativi i risultati della prova di Cooper che considera una sola grandezza. Non è possibile pianificare la preparazione atletica solo in base alla frequenza cardiaca, ai valori della SAN (“Soglia Anaerobica”) e della VAM (“Velocità Aerobica Massima”), o al consumo massimo d’ossigeno. Una precisa valutazione funzionale del runner, che porti a un fitness planning efficace, deve tener conto anche della preparazione atletica, dello stato di forma del soggetto e delle caratteristiche fisiche, nonché genetiche, dello stesso. Un runner al massimo della forma ottiene sicuramente risultati molto buoni nel test di Cooper ma, indurlo a incrementare il programma di allenamento unicamente in base a tale prova, non avrebbe risvolti migliorativi e lo porterebbe solo allo stremo delle forze.

 

 

Il Team di RunningMania